VIRGINIA ZANETTI

Qual è il tuo settore artistico? E scegli tre parole che descrivono il tuo lavoro.

Lavoro nella ricerca e nella creazione di esperienze condivise che portano alla realizzazione corale di opere d’arte in forma di fotografia, scultura, tessuti ricamati e pittura. Di base è la mia è un’arte performativa esperienziale, azioni collettive che si trasformano in opere di arte visiva. C’è la parte di performance, esperienza e condivisione con le persone e la parte estetica e visiva.
Relazione, estasi, estetica.

Quali sono le tematiche maggiormente affrontate nelle tue opere? E quali figure o movimenti artistico-culturali ispirano ciò che fai?

Le mie opere sono come delle domande dove c’è una visione, un’esperienza e poi una registrazione dell’esperienza. Mi interessano molto le relazioni e i ruoli che sottendono i fenomeni, parte della mia ricerca sta nel combinare e conciliare le varie dualità e trovare dei punti di tangenza tra cultura occidentale e orientale, così come creare delle connessioni tra la cultura sciamanica e aborigena e il sistema capitalistico e razionale. Quindi è tutto un tentativo di unire le dualità e superarle. La mia pratica parte da un lavoro visivo perchè cerco di captare delle immagini e avere delle visioni pittoriche. Le accosto un po’ a quelle che Jung definisce incoscio collettivo, cercare di captare lo spirito del tempo (Steiner). Le mie opere sono generate da visioni che ritengo illuminanti e che tento di concretizzare con delle esperienze di condivisione e di performance collettive che si fanno nello spazio pubblico, nella natura, in luoghi trasversali spesso non dedicati all’arte. Coinvolgo le persone in qualcosa in cui faccio da tramite, ma anche io cerco di capire insieme cosa stiamo facendo. Il lavoro è costruito come un rituale, atti psicomagici che partono da uno stato di crisi che cerco di trasformare in un’oopportunità, di trasformarlo in un modo per ripensare il reale. L’altra base del mio interesse di ricerca è quello dell’origine e della vertigine, rispetto all’infinità dell’universo, e le infinite possibilità di connettersi con l’altro. Anche il senso dell’estasi sta nel cercare di creare delle azioni che sperimentino l’uscita dell’individualità e il percepire la fusione con il tutto, lo stato di interconnessione. Subisco e creo delle azioni come se fossero degli strumenti terapeutici, dei modi per cercare di tendere a quell’armonia che ognuno di noi può percepire in tanti modi e con tante esperienze singole o attimi che ritroviamo in tanti testi sacri. Tendo verso questa esperienza e quindi spesso creo nelle performance degli esercizi impossibili o di superamento del proprio limite proprio come motore di sviluppo. che non è materiale per cui si utilizza il corpo per arrivare a qualcos’altro, anche il fatto di fare la vertical ripetutamente in modo ciclico con persone che non la sapevano fare… Sottolineo l’impossibilità o l’errore, il “tendere a” e poi provare a fare questa esperienza che non è nè descrivibile nè materializzabile, tipo il lavoro di scultura, traccia, azioni, per tornare all’origine e tornare ad una fusione. La creta provava a registrare questa azione, ma non è registrabile anche perchè fino a che non abbiamo una dissoluzione o una morte questa cosa non la si può riportare o descrivere materialmente. Di fatto molti lavori fanno emergere un processo non visibile, tendono ad evocarlo e sul piano estetico. C’è una parte di costruzione che viene dalle immagini iniziali, poi c’è questa esperienza e all’interno della creazione provo a registrare, ricreare quell’immagine iniziale che poi cambia nel tempo, si arricchisce, si comprendono cose insieme.
I miei riferimenti principali comprendono tutti i romantici, perchè anche io mi definisco una concettuale romantica per la mia tensione verso l’infinito. Potrei citarti il Viandante su un mare di nebbia di Friedrick per l’idea del sublime e della percezione della propria piccolezza di fronte al tutto. Guardando alla mia opera “I pilastri della terra”, di contemporanei sicuramente ti cito Pietro Manzoni e l’idea dell’invenzione dello sguardo ne “Lo zoccolo del mondo” in cui fa diventare il mondo stesso un’opera d’arte ribaltando lo sguardo, quindi un’inversione dello sguardo arricchito dalla necessità di far attivare le relazioni e l’umanità e quindi ci aggiungo la condivisione di un’opera. E quindi si pone la domande: può l’insieme salvare il destino del mondo e dell’umanità? o è una collettività appesa che subisce delle azioni?
Un’altra influenza è quella del Sutra del Loto, il buddismo giapponese. Il titolo dei “Pilastri della terra” l’ho preso da un gosho: quando Nichiren in esilio fragile e malato dice che lui sarà il pilastro della terra. L’idea è anche quella di unire le culture sotto un umanesimo che poi è anche l’obiettivo del buddismo. Tutte le opere, tutte le esperienze sono cicli di lavori di ricerca che vogliono in un qualche modo evocare e confermare la validità di principi buddisti attraverso un percorso con le persone: per esempio sperimentando la validità di Itai Doshi (unione comunità e ambiente), o Kinjo Funi. Anche nell’induismo ho scoperto che Krishna dice cose molto simili a Nichiren e Cristo, per esempio sulla montagna di Govarda dice che dovevano smettere di fare offerte ad un Dio perchè i buoni raccolti non venivano dalle offerte ma dalla buona pratica, dal rispetto per la vita. Un’altra cosa che mi influenza è l’arte primitiva, i mondi capovolti, i culti della madre terra, gli etruschi. Di artisti contemporanei guardo a Gina Pane: immagine di un’artista che connette i due mondi.

Con quali spazi del territorio fiorentino ti relazioni e qual è il rapporto che hai con altri artisti locali?

Prima della pandemia parte della ricerca la facevo a casa, ma la maggior parte dei progetti sono lavori specifici sui luoghi quindi mi sposto molto con dei periodi di ricerca che durano un mese circa. Ho uno studio condiviso a Prato, Estuario Project Space, vinto attraverso un bando del comune con cui abbiamo fatto un project space. All’interno siamo artisti, grafici e promuoviamo percorsi di didattica. Noi abbiamo lo spazio in cambio di laboratori di arte contemporanea in scuole. Con Il Pecci il comune di Prato per professionalizzare gli studenti che stanno finendo le accademie delle belle arti – col bando giovani talenti. Da un po’ di anni lavoro con la Traffic Gallery di Bergamo, ho esposto al Museo Pecci, ho collaborato con Palazzo Strozzi per progetti di workshop con altri artisti che hanno portato a delle performance chiuse. Con la Poggiali c’è stata collaborazione per il Primo Vere. Nel 2017 ho vinto un bando per fare un’opera permanente al Palazzo di Giustizia. Per tanti anni sono stata fuori dai canali istituzionali del sistema dell’arte, per scelta, ho iniziato l’accademia e ho fatto parte di tutto il movimento antagonista, poi dal 2011 sono uscita dalle ideologie della politica, che sono state un laboratorio umano. Finita quell’esperienza ho capito che il mio canale espressivo era l’arte e se volevo dire le cose avevo bisogno di dire. Se volevo parlare a più persone e trasformare delle cose dovevo essere inserita in certi ambienti e quindi ho cercato di fare delle azioni per entrarci, con del lavoro serio. Fare l’artista in Italia è faticosissimo perchè non sei tutelato, quindi necessita di uno sforzo molto superiore. Ma con sforzi sovrumani ci può essere anche la meritocrazia, poi chiaramente anche le buone relazioni che si fanno con l’apertura, il dialogo. Avere buone relazioni non necessariamente è per arrivare, ma per creare e tessere un dialogo costruttivo.
A livello di collaborazioni a Estuario siamo in 4. Ho lavorato con Cristina Abati, ho fatto collaborare più musiciti che non si conoscevano tra loro per improvvisare la Carmen di Bizet dentro ad un fiume. Ho interagito anche con danzatori, però se lavoro con professionisti poi gli chiedo di “sprofessionalizzarsi” perchè lavoro sulla semplicità e sulla non-costruzione, chiedo di togliere i tecnicismi. Ho lavorato con Company Blu, anche in quella occasione chiesi ai danzatori di cercare di scordarsi delle regole della danza cosa che è molto difficile per un professionista. Io lavoro molto sulla non artificiosità, sulla persona comune che diventa arte. Continue sono le collaborazioni nella fase di ricerca e costruzione del lavoro. Con artisti visivi ho curato molte mostre e anche con fotografi.

Che strumenti o materiali utilizzi?

Opere fotografiche che dal digitale diventano stampe. Poi nelle azioni c’è la creta che attraverso la scultura diventa ceramica, trattata in modi particolari rispetto a diversi modi di usare i materiali. Lavoro anche con gli arazzi che ho studiato con delle ricamatrici in Portogallo. Per esempio ho fatto un workshop sul ricamo chiamato “Be a poem” in cui persone ricamavano dei pensieri personali su capi di abbigliamento che poi avrebbero indossato – era una performance che rifletteva sul diventare poesia e sulla ripetizione come tecnica di meditazione attraverso appunto il ricamo. Lì ho quasi mischiato anche la moda. Poi questa simbologia della tecnica giapponese del ricamare la ferita (col trauma del covid) è diventata poi un’opera video fatta attraverso una piattaforma. Durante la pandemia contrinuisco con opere video, ma che hanno bisogno di una fisicità, un incontro nel locale per registrarli. Ho lavorato i metalli per l’opera al Palazzo di Giustizia. Mi avvalgo anche alcune volte dell’aiuto di artigiani.

Qual è il tuo rapporto con il mezzo e lo spazio digitale? In che modo le tue opere ne sono influenzate?

Utilizzo i social come un diario, decido io cosa voglio far venire fuori mischiando il personale con il lavorativo, non li uso solo come artista. Vedo che anche alcuni rapporti si intessono attraverso i social. Diciamo che sono un po’ indietro rispetto al sito.