MAX MONDINI
Qual è il tuo settore artistico? E scegli tre parole che descrivono il tuo lavoro.
Posso definirlo con una tensione, più che con una regola: a me interessa che l’opera d’arte sia un attivatore, che parli direttamente alla tua emotività e di conseguenza al tuo pensiero, ma senza indirizzarlo. Non mi interessa raccontarti una storia, voglio che l’opera d’arte abbia un aspetto evocativo. Nel mio percorso ho proprio cercato di distruggere questa idea: se l’opera d’arte è un lessico, una forma comunicativa, già comunica, non è importante sapere, spiegare, abbiamo le forme per comunicare, attraverso queste si possono già scatenare emozioni. Credo che l’opera d’arte sia incapace di esprimere qualsiasi cosa al di fuori di se stessa. L’opera d’arte non è una creatura che genera cultura, ma è la conseguenza di una cultura, uno specchio, un prodotto o un’opposizione, non si porta dietro un carico educativo, io non imparo qualcosa, non amplio la mia visione con un contatto diretto con l’opera, essa non mi trasmette una formula ma semplicemente parla alla mia emotività. L’opera non mi spiega niente, a livello pratico non serve a nulla, non cambia nulla nella mia esistenza. Ma pensa alle Grotte di Lascaux, in un contesto in cui devi trovarti un riparo, dovevi scontrarti con malattie, morte, c’era un uomo ha trovato la necessità di chiudersi in una grotta e creare delle immagini che non avessero nessuna storia prima e nessuna storia dopo. Abbiamo bisogno di caricarla di concetti, parole, cose se è già perfetta così?
Sfida, attivatore : l’opera d’arte deve farti passare da passivo ad attivo, deve farti scorrere il sangue, fatica: l’opera deve essere una grande fatica, addirittura una paura, devi avere paura di fallire fin quando non apri la mostra.
Quali sono le tematiche maggiormente affrontate nelle tue opere? E quali figure o movimenti artistico-culturali ispirano ciò che fai?
Cerco sempre di togliere contenuto.
Ho tanti artisti che apprezzo, ma nell’ultimo anno mi sono staccato da questi: Martin Creed – anche lui uno molto legato a questa idea di “togliere” – che ha un lessico e una dinamica che ti spinge comunque a fare delle domande. Cerca di lasciare un contenuto all’interno dell’opera certo, ma sei sempre in un lavoro che non è imprescindibile da se stesso, non ti basta solo lui, ti viene da cercare altro. Mi piace molto Spalletti, per molti anni volevo essere come lui. Epaminonda, altra artista bravissima. Comunque devo ammettere che dopo tutto la mia pancia spinge a Michelangelo: sono di un’emotività totalizzante, cercare di avere quella forza espressiva mi interessa molto. Poi una persona a cui devo tantissimo è Alberto Garutti, mi ha dato la possibilità di confrontarmi in modo diretto e schietto con quello che lui stesso produceva, mi ha insegnato ad essere molto lucido e schietto, ma nel rispetto delle persone.
Con quali spazi del territorio fiorentino ti relazioni e qual è il rapporto che hai con altri artisti locali?
Se non sei presentato da curatori è molto difficile entrare negli spazi importanti della città, non è solo un discorso legato alle conoscenze, è anche un discorso legato ai numeri: Firenze è più disponibile in questo, c’è meno filtro, sei più a contatto con curatori e gallerie, ci sono molte residenze e queste servono a fare pubbliche relazioni. C’è molta elasticità in questo, quando arrivi e parli ad un gallerista c’è molta più attenzione verso ciò che fai. Poi ci sono entità che si stanno muovendo bene: gli Uffizi e Palazzo Strozzi per l’arte contemporanea. Di base non collaboro stabilmente con nessuno spazio in Toscana: ho fatto una collettiva al Pecci, una residenza in Manifattura Tabacchi, ho collaborato adesso recentemente con la Galleria Secci. Apprezzo molto il lavoro di Sergio Risaliti, che sta mettendo molta carne al fuoco a Firenze e apprezzo molto la sua azione. Mi interessano le diverse posizioni e gusti che abbiamo, ha reso vivo il Museo del Novecento, fa moltissime mostre belle.
Collaborare con progetti esterni non è ancora capitato, ma ho dei buoni legami di confronto con alcuni artisti: principalmente studenti dell’accademia di Firenze. Il problema della formazione di giovani artisti a Firenze è la mancanza di confronto diretto col mondo esterno. In più io ho cominciato a gravitare su Firenze meno di un anno e mezzo fa: sto scoprendo artisti giovani molto capaci, non hanno niente di meno di artisti internazionali, l’hummus è perfetto e gli artisti ci sono, devo solo darmi tempo per scoprirne di più.
Che strumenti o materiali utilizzi?
Computer: il 99% del lavoro lo faccio con photoshop. Sperimento moltissimo, quando ho un progetto nuovo tendo a complicarmi l’esistenza, con le stampe, con le pellicole. Questa vena digitale mi ha permesso di espandere i miei rapporti coi tecnici, che hanno una vocazione completamente diversa dalla tua ma che ti danno modo di esplorare anche di più in quello che sto facendo. E’ questa per me la vera vena dell’artista: il confronto. Se riesci a tirare dentro altre persone, se attivi altre persone vuol dire che il lavoro funziona.
Qual è il tuo rapporto con il mezzo e lo spazio digitale? In che modo le tue opere ne sono influenzate?
Il digitale è una possibilità, ma una possibilità che deve essere dettata da una necessità. Il bello del digitale è quando non è semplicemente una novità, ma un’ovvietà. Io ho sempre lavorato con gli oggetti, tuttavia il digitale c’è sempre stato, per lavoro. Nel primo lockdown ho iniziato a lavorare con immagini in digitale, e poi ho avuto la possibillità di fare una residenza in Manifattura Tabacchi per sperimentare. Adesso ho invertito il lavoro: creo l’opera in bidimensione e penso come renderla in tridimensione. Da quando ho iniziato lavorare col digitale mi sono reso conto che questo mi permette di fare più cose, nel senso che il limite tecnico è molto più basso.
Attraverso gli altri mi sono scoperto anche pittore: io adoravo la pittura, sapevo che la pittura era una cosa seria e allora mi son detto “io non mi ci metto”. Ho sempre avuto un rapporto con la pittura di amore, reverenza. Il digitale mi ha aperto delle porte che mi erano precluse da un discorso tecnico e da un troppo rispetto verso quella cosa lì. Ho trovato qualcosa con cui potessi scrivere ciò che già conoscevo, ma in un modo diverso.
In che modo la dimensione fisica e digitale interagiscono nella tua produzione artistica?
Faccio molti lavori digitali e sto trovando una ricerca lì dentro che continuo a tenere viva. Io ho sempre lavorato con la tridimensione, ho sempre fatto installazioni, questa cosa di confrontarmi con una immagine bidimensionale continua ad interessarmi perchè questi lavori che faccio in digitale hanno sempre poi una dimensione fisica. Non sono semplicemente immagini bidi ma sono pensate per riempire un ambiente, uno spazio. Queste rielaborazioni digitali che ho costruito al pc hanno poi una messa in relazione con l’architettura dello spazio per cui sono concepite.