DANTE LEO CAPASSO

Qual è il tuo settore artistico? E scegli tre parole che descrivono il tuo lavoro.

La mie aree di produzione sono quella grafica e  della performance art legata al corpo, il vestiario e lo spazio come strumenti di indagine sociale. La mia ricerca è volta in parte all’emancipazione dello strumento “moda” dalla componente commerciale, classista e colonialista rivendicandone invece la componente di linguaggio visivo indossabile , costruito spontaneamente dall’uomo per autodeterminarsi come essere, esporsi e ricercarsi nel collettivo. L’esigenza di trasporre nelle propria estetica personale e pubblica gli ideali condivisi e il modo in cui viene fatto ci mostra l’essenza universale e popolare ma anche rivoluzionaria e sovversiva di questo unico strumento.
La mia ricerca si interroga in parte sul design inteso come interazione tra il corpo e i manufatti. Gli oggetti di design sono studiati per essere un’estensione umana, sono atti a semplificare e accogliere l’elaborazione dei suoi scopi e dei suoi successi ma il manufatto, in quanto tale, occupa uno spazio fisico e strumentale per l’uomo, che ne modifica l’interazione con la materia. Nel bene e nel male, gli strumenti artificiali diventano parte integrante di uno sviluppo, di una visione d’insieme.
In quest’ottica il corpo indossa lo spazio in cui è immerso e tutto ciò che lo compone.
Pecco nella definizione, non ho mai cercato di definire nel mio settore artistico. In parte perchè non mi sento parte di un settore artistico: so che mi piacciono le composizioni, la pratica e la grafica digitale… ma perchè ho sempre usato pc e mi sono sempre arrangiato con ciò che ho davanti. Mi posso definire come osservatore e ricercatore, infatti anche le creazioni artistiche che corredano il mio portfolio sono più una messa in matericità di quelle ricerche, e non il fine effettivo di queste. In generale non mi definisco, perchè astrattamente il mio lavoro affronta anche il tema dei ruoli e di come la classificazione dei ruoli abbia creato delle problematiche: patriarcato, colonialismo, formazione piramidale della società. Quindi non ho mai voluto darmi un ruolo: di base sono un grafico, faccio vestiti…sono all’interno di ricerche che vengono sviluppate in esemplificazioni visive ma il cui scopo risiede nello sviluppare la ricerca stessa. 

Tre parole con cui definirei la mia arte? generativa, un’arte che rasenta il reale, l’inconscio, una cosa che parte dall’uomo ma che fa scaturire delle batterie di concepimenti che non riguardano più me, sono il totale abbandono dell’individualismo; autonomia, non la mia, ma la ricerca dell’autonomia diffusa, riportare l’arte sul terreno di battaglie sociali e politiche; risorse, parte fondamentale del mio studio è l’uso delle risorse, come usarle al meglio, come usare quelle che si trovano, e anche le risorse umane, avere il totale rispetto dei materiali e delle persone intorno a me.

Quali sono le tematiche maggiormente affrontate nelle tue opere? E quali figure o movimenti artistico-culturali ispirano ciò che fai?

Il lavoro a cui voglio arrivare è anche un modo per emancipare il sistema moda, questa emancipazione dalla macchia capitalista che ne ha preso il possesso, è una missione a cui stanno combattendo molte persone nella moda: prendi ad esempio il progetto Brinco di Judi Werthein. Questo è un esempio fantastico: fai vedere una situazione sociale e crei un’azione, non rimani passivo a commentare. Quando di solito nell’arte l’appropriazione culturale diventa parte dell’atto artistico, ma per me è come saccheggiare. La cosa da capire è che il messaggio deve essere uno sprone potente in maniera tale da cambiare la situazione o almeno spiegare a qualcuno come cambiarla.

Tra altre figure artistiche di riferimento posso citare i Fluxus, Rebecca Horn, Valie Export, l’azionismo viennese, Meredith Monk, Luther Blisset, Dextro e l’arte generativa.

Le mie tematiche cambiano. La cosa importante per me è capire la necessità di un momento. Quando un lavoro è solamente mio le tematiche sono spesso filosofiche e astratte: alcune collezioni hanno parlato della struttura sociale e come questa ti venga contro quando l’uomo cerca di evaderne. Sono molto propenso poi anche a lavori collettivi, in modo tale da pormi un obiettivo preciso. Anche per questo motivo mi sono avvicinato agli spazi occupati di Firenze, per assorbire il loro funzionamento – come si interpreta un’assemblea, come si attraversano gli spazi, come ci si pone – e poi anche perché in questi luoghi posso dedicare gli strumenti che so già usare a delle battaglie più collettive e condivise, perché alla base delle mie produzioni c’è la necessità di creare comunità. Sto lottando perché questo obbiettivo sia di fatto declinato in tante azioni.

Con quali spazi del territorio fiorentino ti relazioni e qual è il rapporto che hai con altri artisti locali?

Sono venuto a Firenze facendo parte del Polimoda, ma una volta concluso me ne sono allontanato. Adesso gli spazi che frequento non hanno niente di istituzionale. Sono gli spazi occupati della città che mi hanno insegnato moltissimo su come fare e dare valore alla cultura dal basso. L’arte non riguarda quante persone la vedono e dove viene esposta, ma se la persona che vuoi che la veda la stia guardando. Da fuorisede pensavo che uno dei principali problemi della città fossero la turistificazione e la gentrificazione, ma a queste si affiancano molti altri  problemi legati alla lotta per la casa e lotta per il lavoro. Entrando spazio dopo spazio, ho capito anche come questi si approcciano a queste lotte: viale Corsica guarda al diritto e lotta per la casa; La Polveriera Spazio Comune alle culture dal basso; Mondeggi a come si devono usare le risorse per rispettare la natura. Sono tutte considerazioni che non puoi fare a meno di fare. Il mio rapporto si è poi declinato in rapporto artistico: in Polveriera per esempio ho messo a disposizione il fatto che riuscissi a fare grafica, ho messo in campo i miei strumenti per fare dei percorsi con altre persone per esempio un corso di cucito autogestito. Mi ha aiutato ad uscire da una visione individualista dell’arte e dell’artista.

Sono aperto ma timido. Ho fatto alcune collaborazioni soprattutto di grafica. Un progetto più collettivo l’ho svolto con RibellArti: un collettivo che viaggiava tra i vari spazi occupati della città e si occupava di espressione artistica ai fini della lotta sociale e politica. Percorsi che riguardavano la situazione dei carceri,  si affrontavano delle tematiche che di solito da solo non affronto.

Che strumenti o materiali utilizzi?

Per il digitale il materiale è calcolato sull’effetto che voglio dare alla fine e su cosa è possibile stampare. Per quanto riguarda le espressioni più materiche che non riguardano il digitale, sono molto versatile: utilizzo residui, materiali di riciclo. Non ho mai avuto un budget per fare queste cose, quindi nasce da una necessità. Ma mi è sempre interessato il rapporto che umanamente posso avere con le persone che producono questi materiali. Quindi quando ho un progetto che prevede un materiale definito cerco di non mettere mani al portafogli.
Per quanto riguarda i programmi del computer uso tutto il pacchetto Adobe; negli ultimi anni ho fatto un salto oltretutto: adesso sono entrato nel mondo 3D e della modellazione… ho trovato la risorsa digitale che mi avvicina all’idea di mancanza di spreco materico. Tipo la nuova collezione in camicie stampate l’ho fatta totalmente in 3D prima di stamparle. Il digitale è una risorsa agli artigiani e agli artisti in un momento in cui siamo completamente affogati nella produzione ed un pensiero critico deve andare in questa direzione. Il digitale  ci aiuta a riflettere se quello che facciamo è effettivamente valido per essere prodotto, e aumenta il potenziale dell’immaginario: ho provato forme che non avrei mai potuto pensare di fare nel reale perché avrei sprecato troppo tessuto.

Qual è il tuo rapporto con il mezzo e lo spazio digitale? In che modo le tue opere ne sono influenzate?

Davanti allo schermo e alla pagina bianca io sento un dialogo aperto col mio inconscio. D’altro lato riconosco lo strumento, e riconosco il fatto che può essere una svolta per l’artigianato, la produzione e la sua diffusione. Mi dà la possibilità di pensare ad un totale abbandono della matericità, che per me vuol dire dare il vero valore alla matericità: riconosco il fatto che la materia è più importante di me e quello che posso fare.

In che modo la dimensione fisica e digitale interagiscono nella tua produzione artistica?

Lo spazio digitale dà la possibilità di pensare che non sia necessario di arrivare ad un fine effettivo – ti concede quel sollievo  – e che la ricerca può continuare. D’altro lato il materico dà proprio quello: ti dice che tu sei una persona fisica e mette in luce il fatto che il tuo progetto ha anche bisogno di fisicità.
Comunque sento la necessità ad un certo punto di produrre in fisico, per stabilire che c’è stato un raggiungimento, e che da quel punto in poi si va solo avanti, si va solo a migliorare. Poi chissà, magari un giorno non più avrò bisogno della materia.